Quali sono le tappe che portano alla costruzione dell’identità collettiva e quando e perché essa si configura attraverso la costruzione dell’altro, nemico e ostile da sé, solo in quanto portatore di diversità? Perché il “noi collettivo” si costruisce attraverso l’esclusione e la marginalizzazione dell’altro? Quali sono i postulati che consideriamo inderogabili, alla base della cultura europea e che hanno condotto a società fortemente e indiscutibilmente gerarchizzate?
Questi sono gli interrogativi da cui parte il bel libro-dialogo Razzismo e noismo. Le declinazioni del noi e l’esclusione dell’altro, frutto del confronto e dell’intreccio di ragionamenti di due studiosi molto diversi fra loro ma che decidono di incontrarsi, e in alcuni momenti scontrarsi, per cercare di delineare, a partire da prospettive e formazione diversi, le dinamiche che sono alla base della formazione dell’identità collettiva.
Già la struttura del libro anticipa e funge da manifesto di intenti: non è una narrazione lineare e sistematica, tipica della forma saggio, zeppa di constatazioni, assertiva, dogmatica, che pone sul piatto del lettore verità inconfutabili. È un dialogo che si compone gradualmente a partire da linguaggi diversi, che si mette in discussione; dove i due interlocutori si aprono all’ascolto dell’altro, sgombri da pregiudizi e da convinzioni preconcette. Si alternano, con un ritmo serrato e appassionato, con l’intento vivido di raggiungere il livello più viscerale di approfondimento, assumendo la complessità come inizio e prospettiva, senza cedere a semplificazioni e a scorciatoie.
Luigi Luca Cavalli Sforza è un genetista di fama mondiale i cui studi hanno dimostrato l’inservibilità del concetto di razza applicata agli uomini, mentre Daniela Padoan, di alcune generazioni più giovane, è una studiosa che si è occupata di testimonianze di deportazione, di genocidi e totalitarismi e di resistenze femminili. Due generazioni a confronto e due linguaggi, quello scientifico da una parte e quello umanistico dall’altro, che invece di correre, come fanno solitamente, su binari paralleli, decidono di intrecciarsi e dare forma ad un pensiero che per sua stessa natura nasce dall’incontro di diversità, che non si perdono l’una nell’altra ma che sono capaci di concorrere entrambe alla costruzione di un pensiero alt(r)o complesso e articolato.
In un momento storico e sociale in cui il richiamo ad una presunta identità collettiva sembra forte e urgente, e viene venduto come l’unico modo per superare una crisi economica di grandi dimensioni, questo libro diventa una miccia interessante in grado di innescare un ragionamento originale che si fa leva per porre in discussione l’intero sistema di dominio, sottomissione e sopraffazione che diamo per scontato e che consideriamo intoccabile nella sua ineluttabilità.
Attraverso una ricostruzione delle dinamiche di relazione che hanno trasformato il vivere in comunità e tracciando una sorta di archeologia del dominio, il libro cerca di arrivare alle radici del razzismo, quale prodotto della gerarchizzazione del mondo, per poi indagare le numerose ramificazioni in cui esso si moltiplica e declina.
La chiave di volta attorno a cui ruota l’intera speculazione è il concetto di noi, nella sua declinazione di “noismo”, termine introdotto dallo stesso Cavalli-Sforza.
In italiano con il termine di egoismo indichiamo un concetto che gli anglosassoni nominano in due modi diversi: egoism e selfishness; in opposizione a quest’ultimo, gli inglesi contrappongono il termine we-ness
we-ness è un senso del sé che si estende al noi, fino a includere un’appartenenza anche molto ampia, ed è questo che propongo di circoscrivere con il termine noismo. (…) Il noismo, in sostanza, è la funzionalità delle nostre azioni nei confronti del gruppo sociale al quale apparteniamo, il quale, naturalmente, ispira sentimenti diversi in vari altri individui appartenenti ad altri gruppi.
Lo studioso afferma che è esistito ed esiste un noi positivo, comunitario e che questo principio ha regolato in passato la nascita e lo sviluppo di molte società primitive che si sono sviluppate e che hanno progredito grazie a legami di solidarietà e di mutualità fra individui.
Dando ormai per assodato il fatto che l’umanità si origina dall’Africa e dalla migrazione con la quale alcuni gruppi si allontanarono per abitare altri continenti, Cavalli -Sforza ci ricorda che l’Homo sapiens sapiens finché visse di caccia e raccolta costituiva società egualitarie, non stratificate, dove a regolare le relazioni umane era il principio di un noi positivo, volto alla collaborazione e alla solidarietà. A seguito della rivoluzione agricola e dell’introduzione della divisione del lavoro e della proprietà individuale emersero differenziazioni di carattere socioeconomico che condussero alla formazione di una classe egemone, costituita da un gruppo ristretto o da un singolo individuo, che si fecero riferimento e orizzonte delle azione e del destino del gruppo sociale o economico di appartenenza.
Nasce il dominio, la sottomissione, la rinuncia della libertà in cambio della protezione dello stato. Da qui lo sviluppo delle società così come le conosciamo noi, che hanno impresso anche nei corpi e nel vivere quotidiano, l’abitudine alla violenza e alla sottomissione quali dati di fatto indiscutibili. Società plasmate sulla gerarchizzazione e sulla divisione in categorie predefinite, la cui affiliazione o esclusione diventa diritto o meno all’esistenza. La servitù, filo rosso della nostra civiltà, alimenta il razzismo e il disprezzo verso l’altro, necessari a legittimare la superiorità morale, culturale e anche genetica del maschio bianco europeo. É il dominio del noi che soppianta tutti gli altri modi del noi.
Daniela Padoan, che riporta continuamente il suo interlocutore ad una visione meno positivistica della storia, pone un altro cardine utile allo sviluppo del ragionamento e introduce la Shoah quale paradigma della categorizzazione del mondo che si alimenta della costruzione di un’identità collettiva, la cui immagine ideale diventa soglia e confine escludente dell’altro, fino a sancirne, indiscriminatamente, in nome di una presunta superiorità, il diritto all’esistenza.
Ecco come il noi positivo diventa disprezzo dell’altro, rifiuto della diversità quale minaccia alla propria integrità culturale e fisica di gruppo.
Interessanti e per nulla retoriche le pagine in cui la studiosa incalza la discussione partendo dal focus della Shoah che non è stata una parentesi disdicevole nel lungo e fruttuoso cammino della civiltà umana, nemmeno l’espressione del male assoluto e trascendentale; non fu pura follia, né un evento inspiegabile.
Fu al contrario il prodotto della cultura europea. Il prodotto di società gerarchizzate che definiscono se stesse a partire dalla costruzione di confini e limiti.
Assumere questa riflessione e farla propria significherebbe ripensare in profondità alle dinamiche di potere che regolano le nostre società oggi, alle pratiche di sottomissione cui ci siamo assuefatti. Abbiamo abdicato alla nostra libertà in cambio di una presunta sicurezza (argomento quanto mai attuale), costituito il nostro essere identitario a partire dalla marginalizzazione, anche visiva, dell’altro, che abbiamo ghettizzato, rinchiuso, allontanato, emarginato e anche eliminato dalle nostre società.
Questo libro complesso, che nasce e si sviluppa a partire dal confronto e dall’indagine, è una scintilla ragionata che ci riporta di fronte a noi stessi, che pone in discussione ogni dogma fino ad ora dato per scontato e soprattutto collega fatti storici e attualità che vorremo sconnessi, principi e causalità che è comodo tenere distanti; ci impone il ragionamento che nasce dalla conoscenza, ci suggerisce che esistono altri modi del noi e ci sollecita, con urgenza, a ripensare a noi stessi e alla nostra storia.
Silvia Antonelli